Massimo barbone in casa | Ritratti di strada

Lui non vive in stradanella più sobria intenzione una casa ce l’ha, ma si vive barbone e va errando per le strade di una cittadina, per i vicoli di un borgo antico. Non è soloha una madre, un fratello, e forse anche altro, così dicono, ma vive l’isolamento, quello stesso di un mondo altro, popolato indubbiamente e non certo alieno, ma nessuno vede, nessuno sa, eppure tutti lo conoscono. 

 

Lui è Massimo, beve, è turbato nella psiche, già malato, così dicono, ed è uno del luogo, non è straniero, nello spirito tradizionale. Sono i luoghi che lo accolgono in quella sorte sì solitaria ad ascoltare i suoi pensieri, a condividere i sentimenti, a godere d’ogni stato di un’anima impertinente… il tavolino grezzo in plastica all’entrata di un bar della stazione, la sala d’attesa impersonale ancora lì, quella pesa a misura d’uomo appoggiata a una parete della stessa biglietteria, la toilette dalle porte aperte, sozza e pubblica, a pochi metri o la panchina buon riparo di un parco già lì di fronte. Passa il tempo qui a sedere, a fissare il vuoto, se non altro, a bere e a fumare le sigarette che ha sempre in tasca, a masturbarsi secondo voglia incurante del momento. A volte osserva e pure vede chi gli passa solo accanto, altre invece scoppia a ridere, una risata or invitante così gaia e profonda, e ride, ride, e ride ancora. In quel caso par davvero che se la rida di noialtri, tanto seri e pur convinti d’esser sani in quella mente, saccenti e gran pavoni, sempre in cerca di un riflesso in cui specchiarsi unicamente. A macchiarlo di un velo di mistero vi è ancora quell’oscura usanza, più dettata e comandata che cercata viva voglia, di sostare in cammino, bruscamente, ancorato in un fermo immagine, ripetutamente e senza sosta. 

 

Dicono di lui già tutti quanti che fosse bellissimo da ragazzo, da giovane adulto in divisa e prima di tutto questo. E lo è a ben vedere anche oggi, qualche anno dopo, nonostante la trascuratezza e l’incuranza… i capelli unti e arruffati, la barba lunga e incolta, i vestiti bucati e sbavati addosso già da settimane a intendere che vi dorme in essi addirittura, ogni umore impiastricciato e un olezzo che risveglia i morti, a trovarselo giust’accanto. Alla comunità non interessa che sia solo a errare in quel mondo sì dimesso, è malato giusta causa, che puoi fare. Già il fatto di non rinchiuderlo è bella mostra di attenzione, dicon fiere le signore, devote e pie, nonché impegnate in quella tratta che è il sociale, vuoi già pubblico o privato, salariato o volontario. Di uno spazio così fecondo tra l’abbandono e la reclusione, quello stesso di un’integrazione e un coinvolgimento nel tessuto cittadino e comunitario a partire da quell’altro pur famigliare, mai nemmeno l’ombra.  

 

E così Massimo è destinato a viversi solo nell’insana sorte, in attesa di andare, di lasciare quest’altro mondo, pure lui come già noialtri, un giorno forse lì seduto proprio al parco sulla sua panchina e di tornare ad esser acqua che l’anima già purifica… come egli stesso ebbe a sussurrare all’orecchio pur lì attento in quel suo mondo così svuotato. 

 

Sabina Greco


Dipinto di Robert Lenkiewicz