Maledetto rito di purificazione | Del resto sono solo una puttana

Mia amata Dafne.


A lui la volta tocca, allo scadere di ogni anno, di richiamare alla mia memoria quel giorno sì ingrato in cui lui mi comandò il suo rituale avvilente. Di fede ortodossa, per la prima volta, ebbe a iscrivere sulla mia pelle la sua versione di una tradizione, popolare in terra propria, dell’innocuo Giovedì Santo. 

Detto anche “giovedì pulito” è così inteso per la sua coincidenza con le pulizie di primavera, un momento in cui tradizionalmente prima del tramonto si puliscono le case, i fienili, si spazzano i cortili e si imbiancano i tronchi d’albero, dentro e fuori corte; si raccoglie l’immondizia, si bruciano rami d’albero e varie erbacce per “mondare la terra dall’inverno, dal gelo, dalla morte e da ogni male”. Vuole ancora un costume che l’acqua sporca così alloggiata sia versata fuori casa, al fine di evitare che l’energia negativa della stessa possa influire rovinosamente sulla vita successiva - meglio farla scivolare su pietre o strade dove nulla cresce. 

Calata la credenza sulla guarigione dei malati, essi si fanno il bagno molto prima dell’alba di uno stesso giorno gettando l’acqua al crocevia mentre rivolgono un’istanza a dio. Simbolo per eccellenza della vita, della rinascita e della purificazione, l’acqua è così a mondare dalla malattia e a guarire ogni ferita. 


Ebbene, mia amata, sullo sfondo di una tale usanza, rispettabile nel suo contesto, lui si sveglia quel lontano giorno avanzando la pretesa di una mia purificazione, beato pegno del nostro amore. Tornando a casa all’ora di pranzo si ricorda della liturgia lustrale e trascurando ogni altra sostanza da sottoporre a una sana pulizia, esige che io mi faccia la doccia come atto rituale allo scopo di purgarmi dal peccato d’infedeltà. L’accusa già bastante a molestare, infamare e angosciare, una tale rivendicazione, pregna di insopportabile e vuota futilità, in quel preciso istante, mi trapassò il cuore con prepotenza,

così mi convincerò per sempre del tuo amore sincero.


Una bruciante disperazione, opprimente da togliere il fiato, da non far respirare, mi piombò addosso all’improvviso. Avrei voluto gridare, tempestarmi di pugni le tempie e il cranio:  il filo tagliente delle sue parole e il gelo pungente nella sua voce mi penetrarono. Nonostante avessi paura di lui, la mia rabbia esplose, viscerale, acuta, incontrollata, auspicando la rottura rispetto a quando trattenuta ti deforma dal di dentro, come la pressione su una roccia in profondità ne deforma l’anima. Tanti sono i volti di una chimera a inorridirmi. 

Mi rifiuto, non ho fatto niente, e anche se fosse, non mi appartiene la storia dei peccati da mondare.

Nel rispetto di chi li abbraccia nell’ardore, mia ragione, mi sento libera - deo gratias - dal gravame di una legge pur divina e il suo ordine morale a cui rispondere, libera ancora dal fardello di una idea di dio che a non gradire è ogni mia azione contraria al suo capriccio. Mi piace lavare, pulire, spazzare ciò che ovviamente s’imbratta, ma aborrisco ogni dettame che a suggerire è una mia epurazione. 

Da che cosa dovrei essere lavata? 

Non ho fatto nulla di cui sono accusata incessantemente.

E anche se fosse, ponendo il caso: se non è dio stesso a fulminarmi, chi, al suo posto, si vorrà sentire autorizzato all’improprio addebitamento, mia onestà?

Al solo pensiero mi sento raggelare.


Mi rifiuto di sottopormi a qualsiasi rito liturgico avanzato, inflitto e comandato. Ho ceduto spontaneamente ogni appartenenza fideistica.

Nel rispetto di chi li celebra nella convinzione, mia ragione, e pur riconoscendo la presenza di una ritualità inconscia in gran parte dei comportamenti quotidiani di noi umani, mi manca ogni partecipazione emotiva profonda di cui un rito di purificazione morale abbisogna. In assenza di quest’ultimo presupposto fondamentale i riflessi dell’atto indotto, ordinato e forzato - il comportamento stereotipato e la sua dubbia razionalità di giudizio, l’insoddisfazione nel compimento, l’intangibilità dell’esperienza - mi indispongono, mi tediano e mi stressano. 

Perché mai dovrei perdere il mio tempo in qualcosa che ai miei occhi appare più vuoto di un cielo a strapiombo? E in nome di cosa, esattamente, mi deve essere comandato un tale spreco, mia onestà?

Al solo pensiero mi ribolle il sangue.


Mi rifiuto di credere che una farsa di sacrificio mi renda una cittadinanza in quel luogo sgombro e sereno come il cielo a stare sopra, lontana da un delirio che mi vuole puttana, testimoniando realmente e definitivamente il mio amore, secondo lui. 

Nel rispetto di chi ama le garanzie solenni di un impegno morale e legame affettivo, mia ragione, sono certa oltre la morte della vacuità inconfutabile del suo discorso. Se non vede e non ha visto finora, attimo per attimo di una vita insieme, l’onestà e solidità di un’affinità intima e viscerale tale da forgiare entrambi alla stessa maniera, 

null’altro potrà provare ciò che è già evidente.  

La sua stessa partecipazione emotiva e profonda alla dimensione religiosa e cultuale di appartenenza ostentata - fittizia, convenzionale, falsa e inconsistente - basta a supportare il dato di fatto. 

Non ci crede nemmeno lui. E perché allora dovrei sacrificarmi alla pretesa di una mente che falsi la realtà subdolamente, mia onestà?  

Al solo pensiero mi si torcono le budella.


Le più riposte fibre dell’animo mio insorgono, si levano, si oppongono alle sue dispotiche rivendicazioni: contesto, contraddico, smentisco. Non c’è santi che tengano. Lui insiste, io piango, lacrime di rabbia, di sconforto, di disperazione, non voglio. La violenza si fa carnale e nell’impeto del furore mi strappo i vestiti di dosso, mi butto in doccia, ora inferno. Zuppa e fradicia mi ripresento alla sua corte, nuda, tremante, di aspro insulto stillante, il cuore intinto nel sangue. 

Questo volevi? mi sento urlare, soffocata dalle mie stesse lacrime.

Me lo devi dire! È questo che volevi? 

Lui mi guarda, s’interrompe, e in una sorta d’incanto grottesco il suo volto si trasforma in un sorriso sottilmente compiaciuto, di malizia infantile.

Grazie! Grazie! Tu sì che mi ami! 

E mi abbraccia, mi accarezza il volto come se fossi una bimbetta capricciosa, incurante di una mia morte dentro. Un vortice mi aveva preso e portato via, un vortice crudele, dalla forza malvagia, cui nulla importava di me, di ciò che amavo e volevo - non appartenevo né più a me stessa, né al mondo, né a niente. Provai l’orrore che deve provare una goccia di sorgente quando d’improvviso capisce che non sta inabissandosi per sua volontà, ma perché spinta dalla forza impetuosa e inarginabile dell’acqua. 

Era troppo felice e si stava godendo il momento.  


Da quel giorno nulla è cambiato, già lo sapevo, mio rifugio. I santi passano, e a restare, solo obbrobrio, è la memoria del martirio. Una sorte vana, un altro lutto nell’anima da assorbire, la burla eterna, e il delirio qui dimora a gravare un’esistenza; quello stesso che inveterato, incallito e recidivo è a rammentarmi giorno dopo giorno che 

del resto, mia sventura, sono solo una puttana. 


Metilde S