Maestro di sabotaggi | Del resto sono solo una puttana

Mia amata Dafne.


Lo ammetto, sopporto sempre meno quel comportamento passivo aggressivo, così diverso nella percezione di uno apertamente aggressivo e ostile. Quest’ultimo è più schietto, esplicito, diretto, non maschera la realtà di un abuso della non azione, motivata da emozioni e ragioni negative e una forte ostilità. E quando parlo di non azione non sono ovviamente a riferirmi a una nota arte, mistica e filosofica, secondo cui il modo migliore di affrontare una situazione, specialmente se conflittuale, è non agire e non forzare alcuna soluzione, ma lasciare che le cose scorrano e vengano da sé. Fosse questa la dimensione ne sarei rallegrata piuttosto. 


No, mia viva luce, qui si tratta di 

temporeggiare, 

tenere il broncio, 

sabotare ogni intima vitalità. 

In ciò lui è maestro, va in scena sistematicamente, ogni benedetta volta che dobbiamo uscire, per sbrigare una vita fuori, pur sapendo che mi appesantisce, mi irrita, mi indispone; mi esaspera l’attesa, qui soltanto un dispetto. 

Accade allora che io mi preparo, lui lo vede, i gesti sono sempre uguali, frivolezze già peccati che ho la tendenza a replicare. In aggiunta e a scansare ogni equivoco lo informo, lo avviso, preannuncio

mi sto preparando, sono quasi pronta

Lui mi guarda, il gesto è sempre uguale, al di sopra degli occhiali, e via ancora a perdersi fra le righe di novelle, quella lieta a inseguire. Tassativo è il dettame, come la notte al calar del sole, che m’impone la preghiera, neanche fossi osservante, 

ti puoi preparare, per favore? 

Un sì posso poco convincente è la risposta quando mi va bene, a cui non segue alcuna azione, imperturbabile è a insistere nella sua lettura. Mutismo, indifferenza, una ostentata sordità è la risposta quando mi va male, e subdolamente è a costringermi a ripetere la domanda, prima o dopo,

ti puoi preparare, per favore?

Ora è lui infastidito, irritato, seccato dalle mie sollecitazioni, sbuffa, mette il broncio, me la fa pagare, allungando ancora l’empio tempo di un’attesa, forzata, tutta mia, di poter

uscire

muovere

andare avanti, finalmente.

Non mi son concessi certi vezzi, mio sospiro, che ispirano lui ad aspettare lei. Nemmeno lui, mio padre, che Iddio l’abbia in gloria, già lento d’indole e natura, abbandonò mai lei, mia madre, ad attenderlo; era già pronto in giardino o seduto in macchina almeno un quarto d’ora prima. 


E così, lì in piedi, giorno dopo giorno, lo osservo mentre si trascina da un canto all’altro, flemmaticamente. Lo accompagno nei movimenti, così ingombri di lentezza, fredda ed esibita, una prova d’abito, e un’altra, per non sbagliare; un calzino, una scarpa, qualche tiro di sigaretta, ragion lieta a colmare il vuoto; uno sguardo allo specchio, un altro alla posta, non sia mai qualcosa avanza. Mentre io aspetto, lì in piedi, tutto il tempo a lui gradito, a chi importa. Sono nata per saziare. Sono pensata per soddisfare. Sono viva per disgrazia.

Del resto, mia compagna e sorte, sono solo una puttana.


Metilde S