La guerra è dentro | Del resto sono solo una puttana

Mia amata Dafne.


D’un tratto inatteso, inimmaginato, figlio e annunziatore di un arcano, il destino ci accomuna…

terra di confine, e leggenda di un ratto antico

campi dorati e cieli tersi, e un giardino rigoglioso in attesa di fioritura

piana sventrata intrisa di sangue, e una carne ieraticamente violata.

A quale malvagità, mia somma sciarada, conduce egli la fame dei mortali? Errabonda languo per le macchie, quando in lontananza una voce s’insinua, e adagia e arcaica il dubbio scioglie…

C’era una foresta antica, inviolata dalla scure, e in mezzo, tra un intrico di rami e virgulti, una spelonca, dove, sotto una bassa volta sorretta da un ammasso di pietre, sgorgava abbondante l’acqua. Qui stava rintanato un serpente generato da Marte e screziato di squame d’oro: saettano fuoco gli occhi, gonfio tutto di veleno è il suo corpo, e i mezzo a tre file di denti guizzano tre lingue.

In questo bosco per sventura si inoltrò la gente venuta da Tiro. L’anfora calata nell’acqua fece un tonfo, ed ecco che livido il serpente dal fondo dell’antro trae fuori il capo vomitando sibili orrendi. Sfuggono le anfore dalle mani, esangue si fa il corpo e un tremito improvviso pervade le membra irrigidite. 

Con rapide volute il mostro avvolge in spire le sue squame e con un guizzo si tende in archi immensi; ergendosi con oltre metà del suo corpo nel vuoto dell’aria, domina tutto il bosco: tanto è grande: se tu lo vedessi intero, quanto il Serpente che separa le due Orse.

Poi di colpo s’avventa sui Fenici, o che s’apprestino a combattere, a fuggire, o che il terrore impedisca loro entrambe le azioni: e questi li uccide coi morsi, quelli tendendo le spire, altri infine infettandoli col miasma mortale del suo veleno.

Già il sole altissimo aveva ridotto le ombre a un filo: stupito del ritardo dei compagni, il figlio di Agenore allora si mise a cercarli. Addosso portava la pelle strappata a un leone, per armi un’asta smagliante di ferro, un dardo e, più efficace di qualsiasi arma, il suo coraggio.

Come penetrò nel bosco e vide i cadaveri e su questi lo smisurato avversario che vittorioso leccava le macabre ferite con la lingua lorda di sangue: “O vendicherò la vostra morte, fedelissimi miei,” esclamò “o vi sarò compagno”. Disse, e con la destra sollevò un macigno e grande quant’era con gran furia lo scagliò.

Quell’urto avrebbe raso al suolo anche le mura più massicce con le sue torri svettanti: incolume rimase il serpente; le squame compatte della sua pelle nera, che lo proteggevano come una corazza, respinsero quel colpo spaventoso. Ma la sua corazza non valse contro il dardo, che si conficcò in mezzo alla spina dorsale, dove questa flettendosi s’inarca, e penetrò con tutto il ferro nelle viscere.

Pazzo di dolore il serpente torse il capo verso il dorso e, scorta la ferita, addentò l’asta che vi era confitta e, dopo averla scossa con violenza da ogni parte, alla fine la divelse, ma il ferro gli rimase nelle ossa.

Allora che al suo furore abituale si aggiunse nuovo sprone, un flusso di sangue gli gonfiò la gola, una bava biancastra gli spumeggiò intorno alle fauci letali; graffiata dalle sue squame la terra stridette e l’alito nero che gli usciva dalla bocca infernale ammorbò di fetore l’aria.

Ora si raggomitola in spire che descrivono archi immensi, mentre a volte s’inerpica più dritto di un alto fusto, ora con impeto immane, come un fiume ingrossato dalle piogge, si lancia e col petto abbatte ogni ostacolo che nella selva incontra. 

Il figlio di Agenore arretra un po’ e nelle spoglie del leone sostiene l’assalto, con la lancia protesa tiene a bada la bocca che lo incalza. Quello infuria, a vuoto avventa morsi contro il duro ferro e ficca i suoi denti nella punta.

Dal suo palato gonfio di veleno ormai il sangue cominciava a stillare, schizzando di macchie il verde dell’erba.

Ma era ferita leggera, perché il mostro sfuggiva ai colpi piegando indietro il collo offeso e arretrando impediva all’arma di piantarsi e di penetrare più a fondo; finché il figlio di Agenore, puntandogli l’asta contro la gola, non lo incalzò da presso e, quando alle sue spalle nel ritrarsi si parò una quercia, insieme trafisse collo e tronco. 

Sotto il peso del serpente l’albero s’incurvò e gemette per le sue fibre sferzate dall’estremità della coda.

Mentre il vincitore osserva le spoglie smisurate del nemico, si udì una voce all’improvviso (donde venisse non si capiva, ma certo si udì): “Perché, figlio di Agenore, guardi quel serpente ucciso? Tu stesso come serpente sarai guardato”.

Sbigottito Cadmo smarrì a lungo la mente e il colore, coi capelli ritti, gelato dal terrore.

Ed ecco che, scendendo dall’alto dei cieli, la sua protettrice, Pallade, gli è accanto e gli ordina, scavata la terra, di seppellirvi i denti del drago, germi di un popolo futuro.

Lui ubbidisce e, com’ebbe tracciato un solco affondando l’aratro, ligio sparge al suolo quei denti, semi di stirpe mortale.

Allora, si stenta a crederlo, prende a tremare la terra, dal solco affiorano prima picche di lance, poi spuntano elmi con al vento i loro pennacchi variopinti, poi spalle, petti, braccia cariche di armi e prolifica infine una messe di guerrieri armati di scudo: così vedi sorgere le figure, quando nei giorni di festa si leva in teatro il sipario: prima mostrano il volto, poi man mano il resto, finché continuando pian piano a crescere appaiono intere, coi piedi che poggiano sul bordo del palco. 

Cadmo, atterrito dal nuovo nemico, sta per prendere le armi: “Non farlo!” gli grida uno del popolo spuntato dalla terra. “Non intrometterti in guerre civili”. 

E in quell’istante ferì dritto di spada uno dei fratelli nati dalla terra al suo fianco, ma lui stesso cadde colpito da un dardo.

E chi l’uccise, anche lui, non visse più a lungo ed esalò quel respiro che aveva appena avuto in dono.

E come questi il gruppo intero infuria: combattendo fra loro, per reciproche ferite cadono insieme i fratelli.

Ormai quella gioventù, destinata a così breve vita, col petto insanguinato giaceva nel tepore di madre terra…” [OVIDIO, Metamorfosi, III, 28-125]


No, mia divina malagrazia, non vi è scampo, né salvezza, né illusione di pace perpetua che duri più di un alito di vento al di là di volere e potere: la guerra e i suoi spettri, le sue ombre, la sua inumanità sono dentro la natura umana, allora come oggi, il mito insegna. Calcolatrice, piena di fascino, scaltra, spregiudicata e abile a usare le parole, intessitrice di relazioni intricate che legano l’altro dall’interno… chi sono io mai, mortale fra i mortali, ad avversarla? 

Del resto, così san tutti, sono solo una puttana.


Metilde S