La velata nostalgia delle platoniche case di temperanza | Del resto sono solo una puttana

Mia amata Dafne.


Come se non bastasse il tormento di una vita comune dentro le pareti di un focolare dannato vi si aggiunge anche un umano accanto che si pensa in diritto di mettere in bando un disagio, un malessere, una sofferenza. La convivenza, quella sociale, quella stessa che si riferisce al vivere insieme nello stesso posto e, nel contesto della circostanza ivi narrata, sullo stesso piano di un piccolo caseggiato, con il gusto di un senso di appartenenza a qualcosa (di base all’Umana Gens) o, quantomeno, con la cognizione che l’Altro esiste ed è diverso da noi, ebbene lei si fa scomoda, imbarazzante e dolorosa, quando sei discriminato, minacciato e violentato moralmente nel disagio di un'esistenza delirante, sì, manifesta su un piano individuale apparente, ma in realtà collettivamente fondata. 

Insieme alla canicola, mio respiro e sollievo, il tormentone estivo e i soliti bagnanti giunge da ste parti del tutto inaspettata, marziale e imponente, l’ombra di una figura arcaica creduta andata, 

il signorotto di Brienza

qui località in Provincia di Potenza, il cui borgo antico pare essersi sviluppato nell’abbraccio tutt’intorno al castello, in gran parte dopo l’anno 1000. A dimora da un giorno qui accanto, sul poggiolo tre per quattro addossato, egli si scopre di assistere nel pudore di una penombra a trenta secondi di contesa tra la coppia – mio marito ed io - in casa propria, circostanza in cui quest’ultimo è, in toni rudi, a chiedermi del denaro spicciolo per andare fuori sede con un suo amico. In virtù di una giustificata preoccupazione tento senza successo una mediazione, lui afferra il mio braccio, mi strattona, io barcollo, lo chiamo per nome invitandolo alla moderazione, lui insiste, lo sguardo infuocato, io cedo e gli consegno quanto richiesto, pochi Euro, son contati. Dopodiché, lui si perde nel nulla, in silenzio e senza alcuna considerazione per chi o cosa vi è intorno, il signorotto in cima al resto. 

Ciò che segue nel baleno di un secondo è puro psicodramma nel dramma… il signorotto si accende, salta su dalla sedia, sbraita e urla… “ne ho abbastanza” – dice LUI! a noi, che la vita ha destinato da parecchio a vivere quotidianamente nel delirio, nel disturbo di una mente che ti falsa ciò che vedi! 

Come morso dalla tarantola inforca la scaletta, tre gradini, niente più, si versa sulla corte a cingere il palazzo, estrae il cellulare e percorrendola in lungo e in largo, su e giù, chiama tutto il lignaggio a quanto pare, madre in testa, nobildonna. Non tralascia la cortesia di offendere, insultare, maltrattare verbalmente l’ignaro congiunto della padrona di casa – la nostra, siamo in affitto regolare residenziale in tutta regola da più di un anno insieme a mio fratello, d’aiuto nella malasorte – che per lui, il signorotto, al di là della concittadina, è soltanto una ***** da prendere a schiaffi al primo incontro… e noi siamo i mostri da confinare, siamo un malaffare per i giovanissimi della stirpe. 

Si guadagna tutta l’attenzione dei bambini, lì a giocare, che a interrogare le mie lacrime sono accorsi, dalla sceneggiata del reggente attirati. 

DOBBIAMO ANDARCENE SULL’ISTANTE! 

il suo imperativo, siamo una minaccia per la sua quiete, per la sua tranquillità, per la sorte dei suoi eredi. Sono costretta, mio marito lontano, mio fratello in arrivo, in lacrime e già provata, a rassicurarlo, a rassicurare tutti gli affluiti: 

NON SIAMO DEI MOSTRI!

siamo vittime di un disagio che tormenta e non perdona chi se lo trova sul sentiero, con la volontà di affrontarlo, con la speranza di superarlo, con la voglia di non dar fastidio a chi la vita bacia soave, a chi la vita non dà sconforto, a chi la vita mai condanna alla iella di una rogna nera. 

Non abbiamo ucciso!

Non abbiamo devastato!

Non abbiamo mai toccato! 


anima viva o cosa altrui, se non cieca l’arroganza dentro al cuore, sempre nostro, che pretende di sapere senza mai interrogare, di vedere senza mai guardare, di puntare il dito senza mai considerare la propria parte in quel gioco a noi oscuro che è la vita.


Ma lui non ne vuole sentire di ragioni o di sconforti, 

ha già i suoi problemi

così dice. Cessato il carosello di telefonate pregne d’isterismi il signorotto si riavvicina e con fare intimidatorio in perfetto stile “Spaghetti, mafia e mandolino” chiarisce la sua posizione… “voi non sapete con chi avete a che fare, il palazzo è nostro, siamo tredici congiunti, è un attimo che qui succede un bordello, siamo tutti pazzi, andiamo dai Carabinieri, conosciamo il Maresciallo, voi non potete restare qui, ve ne dovete andare, e subito, lui sì, tuo fratello, è una brava persona, ma voi, tu e tuo marito, ve ne dovete andare”. Sono le 22.00 circa di quel giorno disgraziato e la notte è già scesa. In lacrime sempre ancora, invoco la sua clemenza, lo invito a non condannare chi un disturbo va curando. Nessuna azione di mio marito, più o meno forte, si è mai rivolta verso terzi, 

sono io il suo bersaglio

mio fratello isolatamente, non sono altri a essere violati e ogni addetto e pur preposto in quel del luogo ne è informato, dalla sottoscritta personalmente.

Ma a lui non interessa tutto ciò. 

Insiste nel suo soliloquio, è sconvolto da quanto ha poc’anzi udito… “ti ha chiesto soldi, l’ho sentito, perché ti chiede soldi? perché? l’ho sentito io”. Non si da pace, io svelo l’arcano, sono io a tenere la cassa, quella comune, che vi è di strano, siamo sposati, chi non l’ha fatto? Ma lui ancora non vuole sentire, 

lui non è tonto

lui ha già visto

lui sa già

c’è odor di perdizione, un bel giro di prostituzione, sottintende, e a Brienza fa arrivare la sua sentenza, siamo l’Altro da cacciare. 

Ci rinuncio, mia forza e ragione, cedo il palco e come già nei casi di improvvisa crisi da delirio, per il quieto vivere della brava gente, mi rifugio per la notte, insieme a lui, quando mi scova, mio marito anima in pena alla sola ricerca di un sollievo a quel tormento che gli danno certi pensieri, lontani ricordi, a volte nemmeno suoi. È estate e fa caldo, siamo fortunati, in riva al mare ci cancella l’oscurità, in altri momenti non resta che una panchina lontana da sguardi ostili o un anfratto a dar riparo in attesa che torni il senno, quell’abbaglio sola tregua.

Così fusi ci raggiunge l’alba finalmente, o per dirla giusta: un’altra ancora. Spossati e affranti ci incamminiamo, la voglia nel cuore di rientrare in quel che ad allora era ancora casa nostra. Ci accoglie la gentil consorte, stesso colore, al seguito del signorotto dalla prima ora… 

“com’è possibile? sono ancora qui, non ci dovevano più stare, bisogna avvisare…” 

– fosse per loro l’unica accoglienza per quelli come noi è il marciapiede della stazione o del Lungomare, siamo in località turistica del resto. Pur volendo aderire al loro imperativo di sparire, 

in che luogo mai del mondo, tutto loro,

gli alienati come noi trovano accoglienza nel giro di quelle poche ore di una notte di umana esistenza?

Per loro sventura, o forse nostra, pur sedendo in questo borgo, porto di mare, il tempo dell’imbarco degli alienati su navi per allontanarli dalle città (sempre in cerca di temperanza) ed essere abbandonati altrove – fosse il fondo dell’oceano o una landa desolata in cui perire – è trapassato. Per loro fatalità, o forse nostra benedizione (almeno qui), pure il tempo delle strutture d’internamento coatto e delle case di correzione ai margini delle stesse città (già in cerca della solita temperanza) per favorire il pentimento o servire al divertimento, crudele e osceno, di spettatori oziosi, si è spento. E ancora per loro sciagura, o forse nostra ventura (qui perlomeno) anche lui, quell’altro tempo, dei Gulag, i campi di lavoro forzato per ogni sorta di dissidente del sistema, è andato.

E ancora dove? in che luogo mai di quel mondo, tutto loro

trovano accoglienza già coloro che, pur sgraditi quando confinati in casa propria, nel disagio di un vissuto delirante vedon l’altro come “il diavolo, la strega, la puttana” e ogni cosa smarrisce la realtà per quel che è, per divenire irremovibilmente e rigorosamente ciò che il soggetto impone loro.

Che ci dicano dove? in che luogo mai di quello stesso mondo, sempre loro

trovano accoglienza quelli come noi, mostri ai loro occhi, che gestiscono un disagio senza ricorso alle risposte o soluzioni, le sole nel loro mondo, di allontanamento, isolamento e reclusione. 

È pur vero, mia anima insorta, che a citare l’illustre Foucault, 

la presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. E l’uomo, la più infelice e la più fragile fra tutte le creature ne disdegna la peggiore delle follie, quella di non riconoscere la miseria nella quale si è imprigionati, di non sapere quale parte di follia ci spetta”

Ragion per cui, mia amata connivente, chi sono io in questo mondo, tutto loro, per imbarazzare ora anche il signorotto?

Del resto io orfana di reami sono solo una puttana.


Metilde S