La barbarie dell'esclusione | Del resto sono solo una puttana

Mia amata Dafne.


Non è certo la scoperta dell’acqua calda; di esclusioni, e dell’uso che le società ne fanno per esorcizzare le proprie paure e insicurezze nel contatto con l’altro, la storia è piena. Mio marito non è a inventarsi nulla. 

L’elemento che qui inquieta, agita e tormenta, mio sollievo, è che la dimensione in cui si sostanzia una barbarie dell’esclusione - il chiudere o lasciare fuori, il non accogliere insieme con altri, il non ammettere, il non riconoscere, il togliere, l’impedire - si svela, si apre, si confessa dentro; precisamente nell’oscurità di segrete pareti di una stessa casa che non è più rifugio, asilo e conforto - e forse non lo è nemmeno mai stata, nel tempo. Tutto è ad accadere, esplodere, deflagrare dentro, e pure dentro è a scorrere il sangue di una sofferenza comune a quelle vite già confinate, esiliate, deportate, internate, vicine e remote. Il peso dell’isolamento, dell’esclusione da ogni rapporto e contatto, dell’abbandono della relazione entro i confini inalterabili della coppia, dei suoi sordi e interminabili silenzi è insopportabile: mi scopro in ginocchio a supplicare mio marito di cessare una tortura, a invocare una tregua, a elemosinare un dialogo...

che cazzo vuoi!” 

il tono sprezzante

uno sguardo che annienta

la retorica dell’indifferenza

è l’avanzo che mi concede.


Voglio solo scappare, andare lontano, sparire - uscire dall’inferno, dalla fossa, non respiro, mia anima e sorte. 

Ma dove vado? Dove?

è la domanda nulla vana sterile che incalza un tormento già battente. Sono chiusa dentro!


A lui tutto ciò non tocca. È indifferente. 

La colpa è mia interamente.

Sono io origine e causa del mio stesso male. 

Lui non centra niente. Un marchio d’infamia non si cancella. 

Sono io a volere tutto questo. 

Lui è salvo.


Ed ecco, mia amata creanza, che un disegno è tracciato. A me il peso, il gravame, la zavorra di una indebita attribuzione totalitaria, di una egocentrica e delirante visione di un Io immaginario astratto e insussistente, una prigione nella prigione, una morte nell’illusione.

A me l’onere della causa.

A me il carico dell’origine.

A me l’arbitrio di una volontà.

A me la pena di non soccombere alla violenza di un parto sciaguratamente spurio.

A me il tormento.

A me la follia.

A me il castigo.

A me il dovere della difesa dalla violenza di accuse dichiaratamente false, gratuite e infondate.


A lui tutto ciò non tocca, mio rimedio e cura. È indifferente. Dalla ragione legittimato, a lui la spettanza di infliggere la pena ed eseguire la sentenza, di condanna permanente.

Non mi ascolta.

Non mi parla.

Non risponde alle mie domande, 

risolve la questione voltandomi le spalle.

Non mi guarda.

Mi ignora.

Nega la mia presenza.

Ho smesso di esistere, il miraggio è la sola fede.

Non mi aiuta.

Non mi accompagna.

Nemmeno nella malattia.

Mi abbandona in ginocchio, siede pago al mio fianco e si gode lo spettacolo. Sono io l’artista, sono io la simulatrice, è mia una lurida sottana, mia eterna fine,

del resto io negletta sono solo una puttana.


Metilde S