La certezza che uccide | Del resto sono solo una puttana

Mia amata Dafne.

Ti chiedo di perdonare le mie confessioni diversamente agostiniane, non sono notoriamente santa. Pertanto umilmente insisto a vergarti il tracciato di una dannazione a sgravare il mio cuore dal dominio che l’opprime. Tenebrosa e sotterranea mi stringe e mi fascia, si fa luogo, voragine, questione insormontabile.  

Maledettamente.


La certezza, sua vestale, mi insegna il mondo, è a corrispondere in un senso soggettivo 

alla conoscenza sicura di un fatto

alla convinzione 

alla ferma persuasione

al possesso fuor di dubbio.  

Uno stato di grazia in cui si gongola saldo mio marito, mentre a me resta l’inferno, un campo aperto in cui scontare la pena delle sue paranoie, illusioni e ossessioni. Prigioniero egli stesso della propria illusione, abbarbicato a convinzione e credenza come l’edera al muro, mai disposto a concedersi lo spazio e la libertà di cadere nei molti errori di mente e sensi ad alterare la realtà - che io pazzo?

si dimentica di me Metilde 

nella sostanza di una verità intima e a me propria

mi spoglia con violenza della mia persona

obbligandomi a vestire i panni ingenerosi dell’imputata

accusata di perpetrare l’infamante vizio e l’amorosa frode.


Altresì è a dimenticarsi in quei lunghi tormenti, mia amata traccia, di un sentimento di intenso affetto che altrimenti in apparenza nutre e prodiga; e della tangibilità di un cammino insieme. In quella vece

affiora in tutta la sua irruenza un sentimento di ostilità 

così forte da desiderare la mia rovina; esso permea ogni piano e tempo e satura ogni oncia di aria in casa fino a togliermi un respiro…

tu sei merda!”

“di te mi futto!”

“non è casa mia!”


Per buona sorte, mia grazia, qualcosa è ad impedire che mi stringa la mano al collo, per lo meno in genere; in tal caso a scontare la stretta sono loro, le cose a me care, già poche, non è mio un regno… e così volano le piantine, viva voglia, dal davanzale della finestra a impattare sull’asfalto rovinosamente; mi sottrae quell’unico costume da bagno che possiedo, stretti al mare adoro nuotare, non costa niente; mi obbliga a rendergli l’anello che mi ha dato per lanciarlo con forza e impeto oltre la cinta genio ignaro, assai pago di saperlo obliato fra i ciottoli sul greto del fiume; mi lorda e poi trafuga le lenzuola stese all’aria ad asciugare, le ha prese lui e se le porta. A stenderlo intero un elenco, mia ombra e quiete, si fa ingrato e prolisso, lo spirito è bizzarro e non mi voglio angosciare. In apparenza solo inezie, e forse a ragione, mi rassegno; ciò che invece logora e deprime nell’assedio è l’onere a me affidato, senza tregua, di rifare quel ch’ei disfa rabbiosamente. Per mia indole e tessuto vivo male un laccio che mi impone di sostare infinita sorte in quel limbo or sospeso

ricalcando una trama già ordita

ripassando uno schema già andato

ripetendo un tempo già consumato   

per non addivenire a nuova corte e campare un’insana morte.


E ancora, mio eterno respiro, vivo male una grave e funesta condizione di asfissia, dentro e fuori, che emana dalle sue convinzioni a tal punto cementate da invadere e ingombrare ogni spazio vitale a me-a noi affidato con idee persistenti e molestanti, comportamenti assillanti e attività deliranti. Non ammette ragionamenti, non concede benefici del dubbio, non tollera argomenti in prova di un’estraneità della realtà ai sapori e contenuti dei suoi abbagli, non si apre al confronto, mi impone il silenzio in quell’ordine molestamente impartito…

“chiuso bocca!”

“che mi serve!”

“vai lavare!”

Un bavaglio, mia essenza, che nel contesto già oppressivo e soffocante mi sferra il colpo di grazia: la fame d’aria mi fa letteralmente impazzire, non connetto più, sono fuori di me, mi ferisco deliberatamente, non ho altra via per urlare un dolore che divora, che graffia, che strazia; e forse pure - lo confesso, mia coscienza - per non ammazzarlo, da qualche parte, in fondo al cuore. Ma a lui tutto ciò

non interessa

gli è indifferente

non tocca.

Per lui è soltanto teatro. Se non si indigna, se la ride. E chi sono io, mia libera mattana, per non dare un tal piacere a sto mondo,

del resto io falsa sorte sono solo una puttana.


Metilde S