Un'infamia connaturata | Del resto sono solo una puttana
Mia amata Dafne.
Credevo di averti perduta. Invece sono io, svanita nel nulla, di colpo e senza accenno, senza indizio o pure traccia. Non mi è nuovo, il fenomeno. L’ho già visto accadere altrove, assai più di una vita fa. In quei casi, se non altro, il velo di un passaggio si era fatto già impronta.
Alla stessa maniera, improvvisa e qui brusca, mi sono svegliata, il sogno non più sogno, ora succuba di un genio incubo, sotterraneo ibrido e delirante, lì consacrata a una sorte di inguaribile puttana, prostituta impenitente.
Sento qui il dovere, mia anima e fardello, di chiedere umilmente perdono alle signore intese tutte, meretrici a dare ospizio, fuori e dentro casa. Non è in loro l’accezione, già invenzione di un’economia moderna, rispettabile nell’accordo, amara nell’abuso. Ben più angusta è la veste, più affilato già il verbo, più immonda la condizione quando è il marito a obbligare il laccio, pure pubblico in quello sdegno. E non parlo di istigazione, lungi il pensiero, la pretesa, l’attività. È più intima la dimensione, ben più ingrato il peso dal sapore di antica sorte, cucita ad arte e addosso, iscritta fra le pieghe di un corpo già plebeo, incisa sull’animo di lei or donna dall’assillo di una mente maschia, un dio misogino emulando.
Puttana! Prostituta!
il marchio mio d’infamia in quanto donna austero nome, una natura già ninfomane, l’anomalia innata dote, inveterata tempra, irredimibile colpa.
È così che vuole lui, mio marito.
È così che mi guarda.
È così che mi vede.
È così che mi vive, mia amata causa,
e immancabile ogni nuovo giorno di una vita insieme va brandendo il ferro a imprimere il suo sigillo nella carne già straziata, il mio pianto giusta croce, la mia angoscia sana spina.
Puttana! Prostituta! Non voglio guardare per tua faccia!
Il solo abbraccio divenuto morsa che mi è dato saggiare è quello di un disgusto, di un disprezzo stampato in volto a esasperare un comportamento che si è votato all’annientamento di ogni stilla di vita dentro: perchè donna già immorale in me non vi è valore, non merito la sua attenzione, non sono degna di un sentimento che di amore va campando, la distanza ancor gonfiata a cedere il passo all’avversione.
Io resisto, mi difendo,
non ho fatto niente di ciò che dici!
la tua accusa è ingiusta!
Urlo.
Mi dispero.
Mi torturano le sue parole, i suoi gesti, i suoi spettri, le sue visioni così lontane dalla realtà, dal mio mondo, dalle mie intenzioni.
Ed ecco, mia amata ragione, che a suo dire ne ha conferma, ne ha prova della vergogna, della colpa, della malefatta. Superflua ogni fame di flagranza, il sospetto è già certezza, il falso diventa autentico,
a lui non serve altro
la mia difesa?
soltanto un fastidioso assenso.
A me non resta che la punizione, autentica e per niente falsa: oscuri gironi di rifiuto, ripugnanza e odio capitalizzati che l’età hanno conosciuto. Torquemada ha cambiato volto, ha abbandonato l’antro, rinuncia alla confessione,
oggi sa perchè ha “visto”.
A salvarsi dal fardello di un’infamia connaturata è solo lei, l’antica madre - che dio l’abbia in gloria -, essere (nemmeno donna) sommamente venerabile e assolutamente perfetto. A lei, mio vezzo e sorte, è consacrata ogni promessa di lealtà, vicinanza e abnegazione; con lei è a consumarsi quell’amore viscerale, impuri sogni impastando, che a me lui solo canta. Lo scacchiere doppio volto non ne ammette che quell’una di regine alla sua corte, e pure dio ha sgomberato il campo da quell’altro. Chi sono io, mio asilo e tana, per agire contro la volontà del mondo?
Del resto io donna sono solo una puttana.
Metilde S