Una gelida pennivendola | La violenza dentro

Mia amata Dafne.


Mi rivolgo ancora a te, mia somma istanza - il quesito a tutt’oggi ignorato nonostante le missive e segnalazioni ad altrettante figure di ogni organo competente - per affidarti l'incresciosa sorte che mi vede coinvolta nell'assillo.


Sono solo una delle tante donne, mia amata, già provata da una lunga esposizione a disagi esistenziali e infine oggetto di un'ordinaria aggressione fisica in circostanze aggravanti fra le mura domestiche, che d'asilo e di rifugio per quelle come noi sa ben poco, e che si trova, all'indomani dell'accaduto, maldestramente sbattuta in prima pagina di cronaca e ulteriormente abusata nella vicenda, poiché dettagliatamente tracciata nel profilo pur sguarnito di nome e cognome e interessata di reati, sia arbitrariamente supposti che, in secondo luogo, mai contestati ufficialmente. Da ciò ne sono derivati, per me già logora e disfatta intimamente, il marito ormai recluso, nuove molestie, nuove aggressioni di tipo verbale, nuove accuse del tutto infondate e ingiustificate, nuovi abusi emotivi, nuove violenze morali dalle genti del posto che mi hanno trascinata alla deriva in quella terra oscura di una morte agognata. Le parole in mano all'Uomo sono forza, sono impulso, sono grazia, ma altrettanto e cavalcando l'ombra, sanno essere piaga, tortura e rovina.


E se è vero, in realtà, mio eterno conforto, che tra le aggressioni e violenze a mio danno non vi concorreva in lizza quella sessuale - seppur dalla pennivendola impulsivamente sbandierata su proclama di una gola profonda, né presente al momento dell'accaduto né autorizzata - è la sua stessa tracotante incursione, in quello stesso momento, a spogliarmi di un riserbo umanamente concesso, sono le sue parole a penetrare la mia anima, è la sua indifferenza, pure donna come me, a violare la mia intimità. Avrei voluto godere della stessa tutela, in quanto qui umano offeso, che ha saputo rendere al suo prode informatore, da lei difeso strenuamente, quando le chiesi, ancora scossa, di poterlo conoscere... non di certo per sparargli, la sua preoccupazione, ma soltanto per interloquire e aprire un dialogo, da sempre ogni mio intento, sugli effetti, a tratti devastanti, di una comunicazione selvaggia. 


A tal proposito, mia eterna amata, sono a confidarti quanto dice, chi dice a suo discarico, che si sa che i gazzettieri gonfiano le notizie. Ed io m'interrogo sulla natura di una necessità, per un tal soggetto, di gonfiare la realtà d'un fatto in cuor suo già drammatico quanto basta per chi si trova a viverlo sulla pelle. È forse la scelta di una politica dell'esagerazione assai più redditizia allo scopo di aumentare l'ascolto, o è solo per il sordido gusto di un avvoltoio in cuor celato? Non è ciò stesso contrario a quel valore sì diffuso, deontologicamente pure attestato, di una conformità alla verità del fatto? A lei la sorte, mia amica lume.


Mi dicono altrettanto, il suo procedere giustificando, che essendo di provincia le è propria la superficialità e una certa dose d'incompetenza. Non è mia, amata Dafne, la consuetudine di fare distinzione tra parrocchie di uno stesso dio, umiliando l'una perché paesana rispetto all'altra che è di corte. Non è la taglia e il formato, né l'estensione o la misura a fare l'Uomo, ma la voglia che ha nel cuore di dar sé stesso in quel che fa, senza l'onere di una distinzione, senza urgenza d'imposizione. 


A dirmi, questa volta, sono loro, quelle altre donne, pure esseri sopraffatti e annientati dentro, che a vedere cosa avviene quando ti levi a far denuncia non ci stanno a uscir dall'ombra, tanta è già una vergogna, tanta è già una violenza che ad esser spogliate in piazza non han fame. Come biasimarle, mia adorata, come ammonirle, la mia denuncia non voleva essere già condanna e sacrificio di un disagio, sottaciuto e ricusato da un tempo fin troppo arcano su quell'altare di una ciancia qui spacciata per informazione. La mia denuncia è apertura, amata Dafne, tu lo sai, è bisogno di dare voce al dolore di entrambi dentro, sconosciuti l'uno all'altro pur in cuore già uniti che, nel corpo prigionieri, consumano l'inganno di una mente assetata di separazioni. È ormai noto anche al vento che non redimono le prigioni, non paga l'isolamento e a partorire è una repressione soltanto le aberrazioni. Non sono, nel mio caso, ad aspettarmi comprensione, e del rispetto ho fatto a meno da molto tempo. Quel che chiedo, mia eterna sorte, è d'esser vista in quel che sono in ogni mentre… ora solo quel dolore che risucchiando paralizza senza un conforto della speranza di alleviarlo.


Metilde S