Prepotenze di una cassiera qualunque ai tempi del Covid | XXVII agosto 2020

Mia amata Dafne.

Mi grava nella pena, tornare al tuo cospetto per confessare ancora angherie, violenze e prepotenze in nome di una tutela della salute trasversalmente e manifestamente millantata e di un rispetto di regole scriteriate e criminali che, nel tormento, mi impongono la resistenza imperitura. 

È d’uopo nel contesto anteporre al fatto in sé ben due premesse, mi siano concesse.


La prima

Le scienze umane a qualificare sono, per mia indole e natura, una Persona Altamente Sensibile (lo è uno su cinque). “Le Persone Altamente Sensibili sono quelle che percepiscono gli stimoli interni ed esterni in modo più intenso e profondo, sono particolarmente empatiche e intuitive. Questo avviene perché il tratto dell’Alta Sensibilità, genetico e quindi innato, è determinato da un funzionamento diverso del sistema neurologico, più attivo e suscettibile."


La seconda.

A gravare il peso di un tratto innato vi è, nel mio caso specifico, il rabbocco di una seria forma di mascafobia che ha inciso e incide dalla più tenera infanzia sulla formazione e lo sviluppo della mia personalità, io oggi donna matura e cinquantenne. Essa è maturata in un contesto austero e rurale, famigliare e di comunità di appartenenza, imbevuto di bigotta e devota morale cattolica. Nulla valsero i miei pianti, le mie urla, le mie fughe, le mie resistenze, turbata spaventata terrorizzata dalla OBBLIGATA vicinanza, i miei se la risero, la presero con ingenua leggerezza – così VUOLE la tradizione.

Da allora, mia preziosa confidente, son marchiata dentro come fuori. Mi inquietano mascheramenti quando celano il volto umano. A carnevale mi rifugio in casa, in società mi affliggono, mi angosciano, mi tolgono il respiro, ho la sensazione fisica di soffocare, di morire, di bruciare quando a me sono IMPOSTE, foss’anche soltanto nel tentativo. È tale la portata di una condanna da non permettermi l’espediente di un cosmetico, antica arte dal ruolo fondamentale nella cura della persona. Il merito in sé di esser abile e astuto artificio a nascondere o falsare la realtà (già di un brufolo a bastare) è sufficiente a montare il mio intimo rifiuto. Niente rossetti, niente fondotinta, niente polveri di cipria – sento la pelle che non respira, i pori ostruiti, la comunicazione dentro-fuori ostacolata, mi sale il panico, IO non respiro, ho bisogno d’aria…

La portata di una condanna è ancora tale da non tollerare il velo di un lenzuolo oltre le spalle, la notte a riposare; da dormire seduta nel letto appoggiata alla testiera in quelle nottate di naso chiuso, tappato, imputabili a un comune raffreddore.

È, senza tregua, tale la portata di una condanna da impormi la tortura di un quesito, ad ogni uscita, da quel dì di un capriccio: come fa la gente a respirare freddamente, e in un vago accesso di improvvisata coprofagia, il proprio scarto?


Di cospetto, e via da me, mi impressiona mi turba mi confonde ogni contesto di mascheramento. Ho bisogno di leggere i volti, percepire le vibrazioni dei toni alterati della voce, osservare quelle microespressioni impossibili a mascherare la realtà di un intento, la genuinità di un emozione, di un sentimento – mi rassicura nei rapporti con gli altri e il mondo intorno a me. L’ombra non tradisce, si appunta sul volto e colora la pelle: maschere di dolore, di perfida ferocia, di fatale indifferenza, di spietata vanagloria, maschere torve e grigie opprimenti che non promettono nulla di buono – mi penetrano, mi preoccupano, mi angosciano. Se sono oggetto non le posso nemmeno sfiorare, già al tatto mi assale una violenta impressione di repulsione e di schifo. Chiedo scusa, mia amata compagna.



Fatte le dovute premesse, giungo ora a narrarti il fatto, o meglio, i fatti. L'altro giorno fra i tanti, solita ora, sono al supermercato per fare la spesa di giornata. Da quel noto 6 aprile stesso anno, a certificare la mia dottoressa in ordine alla determinante invalidante a te accennata, mi trovo a frequentare il supermercato quotidianamente, come qualsiasi altro luogo chiuso eventuale, celata dietro al foulard, doppiamente ravvolto, fino agli occhi. L’espediente del foulard è mediatore di una follia collettiva a cui soggiaccio dolente nel rispetto e nella comprensione: supporto psicologico in quell’assenza di una intima associazione con la maschera mi richiede, ciononostante, uno sforzo rilevante tapparmi naso e bocca, già sopra evidenziato, che mi è impossibile affrontare senza l’assunzione quotidiana, da quel lontano dì, di gocce e antidolorifici per i frequenti mal di testa e i dolori alla pancia a esasperarmi. 

Alla luce di ciò vi è da annotare che non ho mai preteso, né pretendo, non son mai entrata, né entro SENZA camuffamenti. Unica licenza a permettermi necessariamente è quella di liberare il naso dall’ingombro all’occorrenza e per qualche istante al fine di contrastare l’improvviso malessere che sopraggiunge incalzato dalla calura di stagione. Non sono la sola tra l’altro; molte altre persone più o meno giovani, annaspando, si tirano la mascherina sotto il naso.

Ora, mia amata sorte, succede quel dato giorno che giungo alla cassa e la cassiera, delicatamente, quasi a presagire l’infausto, mi fa segno di coprire il naso. Io mi guardo intorno, vedo altri, oltre a mio marito avanti a lei con la mascherina sotto il naso, ha problemi di pressione e soffre il caldo terribilmente. Nello sconforto le chiedo di avere pazienza, non respiro, non sono untrice. Alle mie parole, la Cassiera Qualunque in questione, dipendente dello stesso supermercato e a servire la cassa affianco, si gira indispettita verso di me e davanti a tutti mi assale: “Serve la mascherina! Tutti DEVONO mettere la mascherina! Le regole valgono per tutti!” Io le ricordo ripetutamente – ella è da mesi a conoscenza della circostanza invalidante! – di essere in possesso di un certificato medico a chiarire, mentre lei, imperterrita e con prepotenza, insiste sui regolamenti, coinvolge gli altri clienti a supporto e conferma e conclude: “Me lo DEVE far vedere!”, insinuando il sospetto che io possa mentire. “Io non le DEVO niente se non il denaro a pagar la merce” aggiungo e la esorto a cessare le sue vessazioni persecutorie, non è oggi la prima incursione, non è oggi la prima mortificazione. Ma la Cassiera Qualunque non ha interesse a tacere, tantomeno a mostrarmi rispetto o a chiedermi scusa. Anzi, si ostina a umiliarmi in pubblico, dicendosi gentile, tutti quanti a testimoniare, pretende la mascherina affermando di avere anche lei un certificato medico e sollecitandomi in tono provocatorio a chiamare i Carabinieri. Trascuro l’istigazione e abbandono il campo invitandola, in tal senso, a prestarvi fede (qui in richiamo al suo di certificato medico).


Il mio cenno alle vessazioni persecutorie, a permettere mia amata, è confortato dal fatto che la stessa Cassiera Qualunque era già a conoscenza della circostanza invalidante a mio carico perché fu proprio lei, quel lontano 4 aprile di questo anno, alla porta del supermercato che mi vietava prepotentemente l’ingresso senza mascherina in assenza di provvedimenti da parte delle autorità che obbligavano all’uso di dispositivi di protezione individuale naso/bocca per l’accesso ai pubblici esercizi, nonostante la mia piena disponibilità a usare il foulard nella riferita impossibilità. 

E a seguire fu ancora lei, a conoscenza della circostanza invalidante, che qualche settimana dopo mi lasciò all’ingresso del supermercato in attesa della obbligata lettura della temperatura (con il termoscanner allora) mentre si opponeva animatamente con la collega, e in presenza dei clienti alla cassa, al mio accesso con il solito foulard. Notai di essere improvvisamente al centro dell’attenzione generale perché tutti (clienti e colleghi ivi presenti) si voltarono a guardarmi, a puntarmi bisbigliando fra di loro, nella tracotanza di una inopportuna stigmatizzazione. 

Fu sempre lei, a conoscenza della circostanza invalidante, che un altro giorno ancora mi urlò di coprire il naso dalla sua postazione alla cassa, mentre io, di spalle, stavo parlando all’ingresso con il responsabile del supermercato di prodotti in offerta, mi era scivolato di poco il foulard inavvertitamente – davanti a lei, in procinto di pagare il conto, due persone con la mascherina sotto il naso. 

Fu ancora lei, a conoscenza della circostanza invalidante, in quell’altra occasione che trascorse in piena libertà e abile noncuranza a servir la cassa, ben tre giorni con la mascherina sotto il mento – furono le uniche giornate in cui vennero a mancare le ammonizioni. 

Fu sempre lei, a conoscenza della circostanza invalidante, che un altro giorno ancora mi stana in una delle corsie del supermercato – in affanno e il “naso scoperto” invocando un po’ di comprensione – e con il solito atteggiamento di gelida indifferenza mi intima l’imbavagliamento. Nella sua arbitraria tracotanza non è a tenere in alcun conto gli altri avventori con la mascherina sotto il naso a gironzolare, colleghi che a disporre la merce la portano sotto il mento, o quelli del banco macelleria che a volte non la usano proprio, o ancora, la collega del banco dei salumi e formaggi, che a fine turno passa per i reparti, coglie un prodotto qua e là, passa alla cassa a pagare – tutto beatamente senza ingombro a foderare il volto.

Ed è ancora lei, a conoscenza della circostanza invalidante, che permette a sua figlia adolescente di bivaccare in zona casse a conversare con tutti in attesa che finisca il turno – rigorosamente senza la pezza apparentemente obbligata. 


Mia amata Dafne, come ben sai, per mia natura e professione sono già a vivere una vita in ISOLAMENTO, lontana da ogni sfarzo, dalla pubblica piazza, dalle esecrabili (odierna sorte) movide di ogni genere, ad abitare un appartamento basso e buio, e non per scelta, ad avere pochi contatti sociali, improvvisati e accidentali. Oggi, uscir di casa, andare a fare la spesa o altre commissioni, cose ordinarie, mi è diventato un gravame insopportabile: aggressioni verbali, stigmatizzazioni, offese, un handicap da scagionare scusare e giustificare. Ognuna di queste intollerabili battaglie è condotta oramai su quell’unico terreno di uno straccio di tessuto, la mascherina, il millantato dispositivo individuale di protezione. A fronte di una scarsissima e trascurabile efficacia scientificamente accertata per contrastare la diffusione del famigerato parassita, foss’anche per mezzo di una volgare presa di coscienza delle dimensioni fisiche del parassita rispetto alla trama di tessuto di una propagandata mascherina sì salvifica, gli oneri a carico di una salute, a tratti già minata, sono altrettanto scientificamente supportati e rispettabili, non ho certo il fardello - almeno quello - di esibirteli.

A ciò si aggiunge oggi, grazie ai pochi verbali desecretati dello stesso Comitato Tecnico Scientifico alla pretesa base delle iniziative medico-sanitarie (trattamenti sanitari obbligatori) di un governo responsabile sollecito e premuroso, l’innegabile realtà del fatto che, in merito alla mascherina e la sua IMPOSIZIONE collettiva, la stessa decisione fu ed è tuttora in essenza politica e di interesse economico dettata da un governo, invece, sistematicamente criminale e associato a delinquere che “nella mistificazione pretende di fornire una giustificazione tecnica per un provvedimento politico, usando a sua volta la scienza come una maschera per coprire altri interessi."


Ed è così, mia adorata, che uno straccio di tessuto si fa campo di battaglia su cui montare quel teatro di una voluta emergenza, nonché terreno di coltura di biechi parassitismi e torbide ambizioni dispotiche, dal politicante alla cassiera del supermercato, nessuno a scartare. È tutto molto triste, mia viva sorte. La domanda, senza posa, che affido a te insieme al vento, persona umana anima e terra… cosa siamo diventati? ... ovvero, in quel disincanto… cosa siamo ancora dentro? 

Furon tempi in cui coloro a rifiutarsi di indossare la fascia da braccio con la svastica si scoprirono giudicati; tempi in cui gli oppositori, giusta sorte, si videro denigrati e annientati, marchiati d’infamia, quei nemici del popolo; tempi in cui coloro d’altra fede si annullarono sopraffatti, trionfante il fratello ad ergere il vessillo di un dio tiranno; tempi in cui coloro a rifiutare il tradimento della propria lingua, della propria terra, la mia qui natia, si trovarono cacciati dalle loro case, dalle loro fattorie, e condannati, già spogli, alla fuga in terra aliena.

Oggi, mia amata coscienza, non è diversa l’ombra di un umano barbaro, perfido e inclemente che a imporre è una mascherina al prezzo della stessa vita soffocata nell’indifferenza di una cassiera qui tiranna, quella stessa mascherina elevata a nuova svastica. Ebbene sì, ne ha contezza pure lui, Saramago, “è di questa pasta che siamo fatti: metà di indifferenza e metà di cattiveria." Mi mortifica, mi vergogno e mi oppongo, come prima. “È l’uomo a regredire a uno stato primitivo. La mancanza di empatia, gli egoismi individuali, le sopraffazioni portano a situazioni incontrollate di violenza e abuso che privano l’uomo della sua personalità, ne rimuovono le generalità, si creano gruppi di potere con lo scopo di prevaricare gli altri." “E niente, nemmeno la fine lo cambierà. Bisogna attenderne l’estinzione", l’amaro verdetto di Lenz a concludere.


Ed ecco, adorata Dafne, che la Cassiera Qualunque non si smentisce. Oggi, nel rammarico io qui scrivente, sono a scorgere una signora anziana avanzare fra le corsie dello stesso supermercato, la mascherina sotto il mento, grazie a dio, la fronte imperlata di sudore. La osservo, ci troviamo insieme alla cassa, lei due turni avanti a me. Nel rispetto di un’imposizione è a tirarsi il cencio a coprire la bocca, quando la Cassiera il suo diktat invoca: “Signora, si copra il naso!” L’anziana sorte, la voce flebile, il peccato in petto, si scusa… “non respiro.” Risponde secca la Cassiera, su quel fondo infausto di una ipocrita narrativa di regime… sono loro i soggetti deboli da tutelare… “lo so, signora, MA E’ LA LEGGE!

Metilde S