L’arte del dissenso ai tempi del Covid | II aprile 2020

Mai come oggi, mia amata Dafne, mi si affresca un quadro sulla pelle e allo sguardo che mi impressiona, mi turba e mi addolora. L’ultimo dei miei timori oggi è un parassita, pur armato ai denti, che serpeggia per le vie e gli affluenti di un paese, di una città, di una intera nazione. Il corpo, primo attore in campo in terra sua, qui appieno trascurato e ignorato, è pensato per fare la sua degna parte, a prescindere. Ammesso il mio ragionevole dubbio sulla legittimità, per lo più morale, di una strategia di contenimento del contagio interamente addossata e scaricata sulle spalle di un cittadino, qui privato in una manovra lampo delle libertà già fondamentali, giustificata con l’insidiosa parata di un inno alla “sua salute prima di tutto”, ciò che mi spaventa mi deprime e mi affligge è il diffuso trattamento inumano a noi riservato (già privati della libertà), nell’inflizione indegna di altre pene e sofferenze morali inadatte ad ogni scopo.

Spogliati di colpo di ogni diritto in costituzione, 

ogni giustizia sospesa, 

non più nemmeno padroni del proprio corpo, 

isolati nel distanziamento pure affettivo, 

abbandonati ai nostri destini in una casa non sempre rifugio e reggia

predati di ogni relazione a sostegno con i professionisti della salute sì mentale e quegli altri dello spirito, sacerdoti e parroci, trincerati nelle loro case lì sicure

reclusi senza certezza a scontar la pena di essere umani, incubatori nottetempo di morte e disgrazia, 

per ciò     criminalizzati

        denunciati

        puniti in un crescendo di sanzioni comminate per respirare pure all’aperto,

traditi da chi s’impone di essere in diritto,

vessati da chi si arroga il merito della mia tutela

strumentalizzati da chi si crede in possesso di un vago titolo a sapere e a informare,

schiacciati dalla brama di chi la corona regge in testa, giacché “il sovrano, nel suo desiderio di imporre la propria volontà sugli altri, facilmente divien tiranno”, mi insegna un già illustre C.G. Jung.

Mia amata Dafne, ho fin qui aderito, per convenzione di un eredità, a quel noto contratto vuoi sociale che, a beneficio di una maggior tranquillità e sicurezza ancor sociale, è a richiedermi la spontanea osservanza nell’accettazione di leggi a me imposte pur cedendo quella parte di una libertà mia propria potenzialmente decretata pericolosa. Non sono una criminale, non sono un’attentatrice, non uso macchiare l’altro di ogni essenza a recar danno, ci pensa semmai il veleno che già gli scorre dentro, ma sono da tempo trattata come tale. Caduto il beneficio, violato il suddetto patto a mia offesa e pregiudizio, il mio dissenso è legittimato, e a manifestarlo sono invitata, in ogni sede qui opportuna.

Metilde S