La redenzione ai tempi del Covid | XV aprile 2020

Mia amata, ti confesso, certi aspetti in vicenda – la paura che confonde i sensi, la evidente e innegabile distanza tra percezione e realtà, l’ingigantimento della portata di fenomeni, unita all’impermeabilità alla critica o alla persuasione contraria – hanno il gusto, qui, della percezione delirante, la quale di concerto con quell’altra marcata tendenza degli italiani a non SAPER valutare la portata dei fenomeni è a non risparmiare di certo un governo delle parti e a corromperne alla radice la credibilità ai miei occhi, pur cittadina di un paese, già lo stesso, sottoposta dalla notte al giorno alla detenzione domiciliare con l’aggravante ove siedo a dimora, in particolare, della minaccia, della vessazione, della violenza or morale.

Alla luce di una percezione sì delirante si spiega, ma non giustifica, un comportamento diffuso di risposta inadeguato, sproporzionato, discriminatorio, a tratti arbitrario e oltraggioso. Sull’onda di una propaganda tormentosa, massiccia e a ripetizione incessante, tanto somigliante ai bombardamenti terroristici a tappeto, al limite dell’intossicazione, del…

“io resto a casa”

“io sono responsabile, faccio la mia parte, fai la tua parte” (al contrario di te che sei irresponsabilmente fuori per una boccata d’aria)

“tutti insieme ce la faremo”

“la salute prima di tutto” (che in precedenza ti ho già narrato)

“siamo tutti uniti, nella stessa barca”

“qualche sacrificio non ci uccide, il virus sì”

e via dicendo, si configura la prima, a seguire molte altre, imposizioni di prevenzione, di contenimento del contagio (ovvero la contenzione della persona), di salvezza, in talune sedi, TUTTI DENTRO al sicuro in casa, senza la minima considerazione per i tanti che una casa, in cui rifugiarsi trincerarsi, non ce l’hanno. Un’imposizione in essenza a tal punto discriminante in quella prospettiva di un “tutti uniti, tutti insieme” che, ancora una volta, attesta una mentalità e una cultura dell’estromissione dell’altro da sé, giammai a monte integrato, che non mi appartiene e che, per contro, mi addolora. Come pure mi indispone 

l’imposizione arbitraria di un gravame di responsabilità, 

a unico pregiudizio del cittadino comune, 

a salvezza di un sistema deputato alla tutela della sua salute, oggi pesantemente chiamato in causa, 

e al solo utile di scontare l’irresponsabile e selvaggio impoverimento dello stesso,

avallato da un governo che oggi è a volermi insegnare una giusta etica della responsabilità. Un insegnamento dettato, tra l’altro, a colpi 

di sanzioni, pure inasprite per decreto, 

di minacce , 

di pene, 

di tormenti, 

di funzionari e militari di governo in odor di fascio.

Mi è insostenibile, e intollerabile, mia amata Dafne, “c’è un limite oltre il quale la sopportazione cessa di essere una virtù”, già un Socrate ne fu profeta.

A tutto ciò già avvilente si aggiunge ancora, trasversale e insidiosa, quella cifra di vuoto di saggezza e di umanità che pervade l’agire dell’uomo moderno, qui a imporsi in forza di un governo a me, pur cittadina, e alla gestione della voluta emergenza di natura solo sempre sanitaria. Un vuoto, quest’ultimo, appesantito da una dolorosa immaturità 

in campo emozionale,

    nella generale confusione, nella paura e nel difensivismo a palesarsi nell’azione,

in quello cognitivo,

nell’uso improprio dei poteri di un’intelligenza che a escludere è l’intelletto intuitivo che disvela i principi regolatori dei sistemi viventi,

e quell’altro motivazionale,

    nell’imporre i bisogni di sicurezza su quelli di conoscenza e virtù.

La diffusa e deviante drammatizzazione di un evento tanto naturale quanto ineluttabile, la morte stessa, che in terra italica assume il carattere di un grido di dolore, un pianto, un gesto di disperazione a memoria d’antiche prefiche, ne è prova e somma testimonianza, tra le prime. “Abbiamo acquisito un irrazionale orrore della morte. Oggi la morte è la grande oscenità, inevitabile ma in qualche modo innaturale. I nostri antenati hanno vissuto con la morte, un fatto sempre presente che hanno compreso e contestualizzato. Hanno vissuto la morte di amici e familiari, giovani e vecchi, generalmente in casa. Oggi la morte è nascosta negli ospedali e nelle case di cura, lontana dalla vista e dalla mente, innominabile fino a quando non colpisce”, è a confermare un esimio Jonathan Sumption.

Da qui, quell’altro aspetto, di un tal umano sempre in cerca di salvezza, d’esser salvato, di un salvatore, al di là di una dimensione, di una storia delle tante religioni, con la derivante elevazione a valor di mito di un soggetto, un personaggio, oggi medici e infermieri, i nuovi eroi, or soldati, in prima linea a dare il sangue per noi infermi; onnipotenti nel delirio sono loro a decidere della vita e della morte, a scalzare pure Dio, fino a ieri lui Signore, torna in auge la domanda di un Matteo evangelista su “chi può con le sue preoccupazioni aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita.” Che sia lei, a questo punto, amata Dafne, la sola storia che ci raccontiamo da troppo tempo?

Metilde S