Il piacere della sottomissione ai tempi del Covid | XXIX aprile 2020

Nella trama di una narrazione, mia amata Dafne, fin qui confessata in merito alla gestione dell’emergenza Covid-19 affidata a un governo in senso lato, mi s’impone l’intreccio di singolari e imbarazzanti risvolti locali di un egual contesto. Risvolti che sono a disvelare – in aggiunta alla percezione delirante e all’inadeguatezza di gestione di chi si erge alla guida della stessa – una manifesta deriva autoritaria, con tutti i tratti suoi essenziali di 

sottomissione e aggressione

di ricerca esasperata dell’ordine 

e di rifiuto dell’ambiguità

di funzionari capo regionali e comunali, ivi illuminati.


È appuntato nelle viscere di una notte dei tempi, mia amata, che, ove fosse da attestarsi una legittimità del rapporto dominazione-sottomissione e pertanto il suo incontrastato equilibrio, vi è d’obbligo il mutuo consenso, ragion per cui la parte sottomessa è a cedere volontariamente ogni potere di decisione su aspetti altrimenti inalienabili della propria vita, a un’altra, investita del dominio, esercitato in quello che è oggi

  • il controllo delle libertà di movimento e di circolazione, 

  • il controllo delle uscite, degli spostamenti pure quotidiani nella loro ovvietà,

  • il controllo del corpo e del suo benessere psicofisico,

  • il controllo delle relazioni interpersonali e naturali di vicinanza annullandoli nell’imposizione del distanziamento persistente,

  • nel controllo delle emozioni in quella fabbricazione di atmosfere e circostanze a spaventare, imbarazzare, confondere e maltrattare,

  • nel controllo dell’aspetto (mascheramenti di viso e mani) e del comportamento nell’introduzione di nuove regole di condotta, nell’intimazione di ordini, nella prescrizione di rituali da eseguire, nell’inflizione di sanzioni/punizioni per disobbedienza e, infine, ma non per ultimo,

  • nella pretesa di venerazione in quei gesti di devozione dedicanti e malcelati nel controllo del pensiero, della parola, vuoi difformi, discordanti e dissidenti.


È questo il caso, del consenso nel rapporto sopraesposto, di quella fetta di cittadini in patria che non differiscono nel pensiero, nel modo, nel sentimento, nell’azione e nel linguaggio dai precetti di una ragion pura a decretare, a stabilire, a governare, e che pertanto, nel piacere della sottomissione

amano sentire che il dominante si sta prendendo cura di loro e 

godono nel sacrificio, 

nella claustrazione, 

nel distanziamento, 

nella perdita di spazi vitali, 

nella nudità di diritto, di giustizia, di dignità di un dolore inflitto.


Non è questo il caso, mia amata Dafne, di quell’altra fetta di cittadini a cui nel dissenso e nella resistenza appartengo. Non vi è né bisogno né piacere nella mia consapevolezza, nella mia coscienza, nel mio cuore di una dimensione di dominio e sottomissione nella generalità di rapporti fra umani, soggetti, persone, non entità tecnocratiche, asettiche, astoriche, e in particolare, a maggior ragione, in quei rapporti tra cittadino e Istituzioni della Pubblica Amministrazione, incluso il governo a orientarla nel rispetto delle forze costituenti il nostro ordinamento e i principi ivi posti alla base: sovranità e persona, tutela della collettività (a non discriminare una realtà in favore dell’altra creduta egemone) e salvaguardia della Repubblica e dei diritti inviolabili della persona, dunque, della democrazia. Una democrazia che nella contingenza di una realtà locale qui narrante è assimilabile al celebre giudizio Tucidideo sulla figura di Pericle: “Era una democrazia a parole, ma di fatto si trattava del potere del primo cittadino.”

Metilde S